Secondo
l'Autore, per curare il fanatismo è necessario sviluppare il senso
dell'umorismo e quello della relatività, vale a dire la convinzione che "ciascuno
ha la sua storia, ma non ce n'è una più valida o avvincente dell'altra", nonché
la consapevolezza della facilità con cui i ruoli si ribaltano: "gli occupati
possono diventare occupanti, gli oppressi oppressori, le vittime di ieri
aggressori". La tragedia vissuta dai popoli palestinese e israeliano consiste
nel fatto che non è possibile distinguere fra "buoni" o "cattivi", in quanto si
tratta di un contrasto fra due diritti. Forse grazie a un'"abitudine
professionale", lo scrittore riesce a coltivare il senso della prospettiva e
anche l'ironia e l'immaginazione, a "perseguire il cammino dell'alterità" come
direbbe Moni Ovadia, un altro acuto esponente della cultura ebraica:
caratteristiche di cui i fanatici sono fatalmente privi.
Uno
dei particolari più interessanti del ragionamento di Oz è costituito dalla
peculiare accezione data al termine "compromesso" e alle sue conseguenze, la
quale vuole essere una provocazione nei confronti di alcuni pregiudizi. Egli si
dichiara un grande fautore del compromesso, concetto considerato normalmente in
maniera negativa, come sintomo di una mancanza di onestà e di integrità morale:
«Non nel mio vocabolario. Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di
vita. (.) Il contrario di compromesso è fanatismo, morte». Esercitare il
compromesso, quindi, significa mediare, andare incontro all'altro, riconoscendo
dignità al suo punto di vista.
Tutto
ciò non mette al riparo dalle difficoltà e dal dolore: Oz sottolinea che un
compromesso felice è un ossimoro, una contraddizione; ma è indispensabile fare
questa esperienza.
E'
significativo rimarcare come Avishai Margalit, professore di Filosofia
all'Università ebraica di Gerusalemme, abbia riportato in una sua recente opera
(Volti d'Israele, Roma, 2000) una lettera di Isaiah Berlin, un altro grande
pensatore scomparso nel 1997, in cui si ritrova una concezione simile. Berlin,
infatti, scrisse: «Poiché entrambe le parti partono da una rivendicazione al
possesso di tutta la Palestina come loro diritto storico, è poiché nessuna delle
due rivendicazioni può venire accettata nell'ambito del realismo a meno di una
grave ingiustizia, è evidente che un compromesso (ossia una separazione) è
l'unica soluzione corretta, lungo le linee fissate da Oslo, per aver sostenuto
le quali Rabin è stato assassinato da un ebreo fanatico».
Margalit,
secondo il quale "Israele non è solo un luogo, ma anche un'ossessione", ha
messo in luce tanto la tragicità del conflitto fra i popoli quanto le
responsabilità israeliane, in quanto se, da un lato, "è facile per tutte le
persone di buona volontà rendersi conto della forza morale delle rivendicazioni
di entrambe le parti", dall'altro "non c'è parità morale". Infatti, prosegue
Margalit, «la ragione di ciò non è che agli ebrei si facciano richieste morali
più elevate perché essi stanno su un piano morale più alto, ma al contrario
perché esiste un'asimmetria tra il poter detenuto dagli israeliani e dai
palestinesi. L'aver così tanto potere in più pone a Israele un obbligo morale
aggiuntivo».
Simili
prese di posizione sono spesso denigrate e tacciate di "tradimento", e lo
stesso Oz è stato più volte accusato di essere un traditore dai suoi
connazionali, nonché guardato con sospetto dai palestinesi. L'Autore chiarisce
che, in fondo, agli occhi dei fanatici, "traditore" sia chiunque cambi, proprio
perché il fanatismo non ammette né concepisce il cambiamento, è per sua natura
inflessibile, rigido, e talvolta si nasconde dietro al conformismo e
all'uniformità portate alle estreme conseguenze. Per questi motivi la capacità
di ironizzare, di immaginare, di relativizzare possono essere una cura contro
le deviazioni fanatiche. In particolare, sempre secondo l'Autore, la
letteratura, arricchendo le potenzialità creative delle persone, può essere
fonte inesauribile di speranza. In questo modo, un romanziere come Oz, che ha
iniziato a scrivere - come lui stesso ricorda - grazie a una fervida
immaginazione e curiosità nei confronti dell'altro, ha potuto comprendere la
fecondità della propria arte, la gioia dello scrivere che, lungi da essere una
mera attività intellettuale, avulsa dalla scottante realtà quotidiana, si
presenta come una risorsa in grado di suscitare una mentalità nuova.
Partendo
dalla celebre frase di John Donne "nessun uomo è un'isola", Oz crea una
pregnante metafora secondo la quale ciascuno di noi è, in realtà, una penisola,
per metà attaccato alla terra ferma (cioè ai familiari, alla propria cultura
ecc.), mentre l'altra metà è portata a "fronteggiare l'oceano". Questo
significa che nessuno ha il diritto di imporre il proprio punto di vista, di
plasmare il prossimo a proprio piacimento, regola che vale per i singoli
individui, così come per i gruppi, i popoli. Nessuno di questi potrà
amalgamarsi completamente agli altri, pertanto le "penisole", cioè le persone, dovrebbero
essere allo stesso tempo in contatto fra di loro e sole con se stesse, per
realizzarsi pienamente.
Nelle
sue lezioni Oz non ha tralasciato il richiamo alla sua memoria personale, per
raccontare brevi episodi legati alla sua infanzia e alla sua famiglia, narrati
diffusamente con estrema sensibilità e poeticità nel romanzo autobiografico Una
storia di amore e di tenebra (Milano, Feltrinelli, 2003). Il dramma vissuto dai
suoi familiari, improvvisamente sradicati dai propri luoghi d'origine europei, lungi
da generare rancore, ha permesso all'Autore di cogliere l'essenza delle
rivendicazioni dei palestinesi, ugualmente estromessi dalle loro case. Le
vicende dolorose accomunano i due popoli, determinando una perfetta
comprensione fra le due parti avverse, fra vittime: "il loro problema" scrive
Oz "è anche il mio".
Forse,
la chiave del superamento delle terribili sofferenze generate
dall'atteggiamento fanatico, proprio di coloro che pretendono di detenere la
verità assoluta, di sapere cosa sia meglio per gli altri (per una forma di
"altruismo" malato) è contenuta in un episodio risalente all'infanzia
dell'Autore, narrato proprio ne Una storia di amore e di tenebra (pp. 391 e
407-408). All'età di otto anni e mezzo, Amos incontrò per caso una bambina araba
e cercò di instaurare un dialogo con lei. Quell'avvenimento rese
improvvisamente chiari quei discorsi degli adulti, più volte afferrati, sulle
relazioni con i palestinesi. Amos si sentì in dovere, per "un autentico spirito
di missione", di comunicare con la bambina per spiegarle "con poche eppur
convincenti parole, quanto fossero pure le mie intenzioni, e quanto invece
fosse aberrante il complotto teso a suscitare contrasti fra le due parti, e
quanto invece sarebbe stato meglio per l'opinione pubblica araba - qui
impersonata da questa bambina con le sue labbra sottili - conoscere più da
vicino la natura gentile e amabile degli ebrei, qui rappresentati da me,
disinvolto emissario di otto anni e mezzo". Solo più tardi Amos si rese conto
che, invece di sforzarsi di apparire al meglio di sé, invece di "andare a lei
nei panni del nuovo ebreo che va dal nobile popolo arabo, da leone a leoni",
avrebbe dovuto pensare di andarle incontro semplicemente "come un bambino a una
bambina", come "un maschio a una femmina". Per moltissimo tempo, infatti, i
palestinesi hanno faticato a riconoscere l'esistenza reale del popolo
israeliano e viceversa; sono entrambi rimasti ciechi di fronte alle rispettive
esigenze. In questo senso, il fatto di aver recentemente superato quello che Oz
definisce un "blocco cognitivo" è stato il primo passo verso una soluzione di
compromesso, verso quel "divorzio equo" che porterà finalmente la pace.
Lo
stesso "pacifismo" di Amos Oz è connotato da una visione estremamente
pragmatica, la quale, per esplicita ammissione, è molto lontana dal pacifismo
europeo, "dall'atteggiamento di chi è disposto a porgere l'altra guancia", in
quanto mentre Oz afferma che non combatterebbe mai per un territorio, o per dei
luoghi sacri, nello stesso tempo dichiara che lotterebbe tenacemente per
difendere la vita e la libertà: «nel mio vocabolario la guerra è terribile,
tuttavia il male assoluto non è la guerra, bensì l'aggressione». Una simile
concezione, che considera la pace figlia del "buon senso" e del "talento ragionevole
per il compromesso", induce ciascuno di noi a interrogarsi sul
significato più profondo da attribuire alla pace. Pertanto, la provocazione di
Oz non può cadere nel vuoto in un momento in cui in Europa si svolge un
dibattito trasversale su che cosa implichi essere "pacifisti".
Nonostante
la constatazione delle inevitabili divergenze e contraddizioni, la riflessione
dell'Autore si chiude con un sicuro senso di fiducia nell'avvenire, nella
convinzione che "la parabola cruenta" del conflitto arabo-israeliano sarà più
breve degli scontri che hanno avuto per scenario l'Europa nel corso dei secoli;
Oz ritiene che Israele dovrebbe abbandonare i territori acquisiti durante la
"Guerra dei sei giorni" (1967) e favorire la creazione di due Stati nazionali; riesce
persino a contemplare per il futuro l'ipotesi di un mercato comune
mediorientale e di una moneta mediorientale. Tutto questo, però, potrà
verificarsi solo dopo che i due popoli avranno eretto insieme un monumento
"alla stupidità passata" e, per quanto riguarda il Vecchio Continente, quando
gli occidentali avranno imparato a riservare "ogni oncia di aiuto e solidarietà
a questi due pazienti", rinunciando per sempre a essere "pro Israele o pro
Palestina" ma schierandosi definitivamente a favore della pace. Oz è critico
nei confronti dell'Europa, definita come "il comune aggressore" di israeliani e
palestinesi, ma non esita a riconoscere che essa potrebbe giocare un ruolo
molto importante nella soluzione del conflitto. Recentemente, in un'intervista
concessa a Iaia Vantaggiato (Il Manifesto, 19 maggio 2004), ha svelato
l'ambivalenza dei suoi sentimenti nei confronti dell'Europa, caratterizzati da
attrazione e paura nello stesso tempo.
Per
concludere, l'opera di Amos Oz, della quale diversi commentatori hanno
rimarcato la poeticità, può essere letta anche come una attestazione di fiducia
nella cultura, intesa come antidoto, come opzione definitiva a favore della
vita, sempre e comunque; l'espressione della certezza che, nonostante tutto,
come ci ha insegnato Anna Frank, "si può continuare a credere all'intima
bontà dell'uomo".